Yellowface
Recensione del libro di R. F. Kuang, pubblicato da Oscar Mondadori.
La verità è un concetto fluido. C’è sempre un altro modo per raccontare una storia, un fattore che scombina la narrazione.
Ero molto curiosa di leggere questo nuovo libro della Kuang: la satira in Babel è uno degli elementi che ho più apprezzato, l’idea di trasportare il tutto nel mondo dell’editoria non poteva che intrigarmi. Questa volta, infatti, l’autrice si butta nella metafiction e le riesce piuttosto bene: un romanzo in cui mostra il suo amore per la scrittura, il duro ma soddisfacente processo che porta alla realizzazione di un proprio libro e cosa significhi farne un lavoro. Yellowface è anche un’immersione nei retroscena del mondo editoriale americano: vediamo all’opera tutte le dinamiche che si celano dietro alla scelta di un manoscritto piuttosto che un altro, come viene creato il marketing, il lavoro di editing, tutto senza filtri idilliaci ma costruito per mostrare il vero volto dell’editoria (probabilmente non solo) americana. Nonostante in un certo senso sia molto tecnico, il libro è comunque scritto pensando anche a chi non sa di cosa si sta parlando: i vari termini e meccanismi editoriali sono sempre spiegati, brevemente senza mai annoiare con troppi tecnicismi.
L’autrice non vuole solo mostrarci il funzionamento dell’editoria, questo libro ne fa anche una feroce e ben poco sottile critica. Come per Babel, le tematiche sono centrali e funzionali alla trama, ma qui la protagonista, June, è una donna bianca etero cis che ci racconta in prima persona la sua storia: vediamo quindi il mondo attraverso la sua prospettiva di privilegiata, ben diversa da quella di Robin. Per quanto lei si professi liberale (“ho votato Biden, non Trump!”) c’è comunque una sorta di razzismo latente nei suoi pensieri e azioni: è infastidita dalla facilità con cui le persone di ‘razza’ (sarebbe più corretto etnie, ma mi adeguo alla traduzione italiana che reputa importante mantenere l’utilizzo di race della versione originale) diversa sembrano avere la via spianata nel mondo culturale, senza rendersi conto del perché e delle vere dinamiche che ci stanno dietro. June non è del tutto inconsapevole dei propri privilegi, se ne accorge quando li vede diminuire o si immagina di starli perdendo, ma non riesce mai ad ammettere che sono tali: si batterà fin da subito strenuamente contro le accuse di appropriazione culturale, perché è giusto che chiunque possa parlare e scrivere di qualunque argomento sia di proprio interesse, ma non riconosce mai apertamente il giochino di marketing per cui ha pubblicato il libro con il nome di Juniper Song, per ingannare i potenziali lettori; certo, si sente a disagio quando l’inganno va a buon fine, ma non ammetterà mai che è quello il problema, non l’argomento del romanzo. Ho molto apprezzato la rappresentazione del tema attuale dell’appropriazione culturale: l’autrice non si fa problemi a condannare l’estremismo “solo i cinesi possono parlare della storia cinese”, ma evidenzia giustamente l’importanza dei sensitivity readers che hanno il compito di verificare che non ci siano stereotipi o insulti razzisti nelle rappresentazioni delle razze. Può sembrare trattato superficialmente, ma è un tema molto ampio e con considerazioni diverse in base al caso, la Kuang ha scelto di concentrarsi sull’aspetto che meglio conosce.
L’altra differenza sostanziale con Babel è che qui la trama esiste e si regge in piedi anche senza l’aiuto delle varie tematiche affrontate, le danno più profondità e complessità, ma non ne è dipendente. Inoltre, il ritmo è molto più incalzante: si viene risucchiati dalla narrazione fin dall’inizio e diventa davvero difficile staccarsi dalle pagine. La storia è ben strutturata, c’è qualche forzatura, ma niente di che; l’unico vero difetto che ho trovato è il finale: dà l’impressione che l’autrice non sapesse bene dove andare a parare (più o meno come la protagonista con il suo libro) ed è un filo troppo didascalico. Resta comunque un finale coerente con il resto del romanzo. La scrittura è semplice e concisa, ma in perfetto accordo con la storia raccontata e contribuisce al generale senso di coinvolgimento che si ha durante la lettura.
L’aspetto che forse più ho apprezzato di questo romanzo è la capacità dell’autrice di far tifare per Juniper, nonostante risulti piuttosto antipatica e sia completamente nel torto. Non sono mai arrivata a giustificarla, non del tutto almeno, ma mi sono resa conto che non volevo venisse scoperta. Questo anche considerato che, per tutto il libro, risulta una narratrice piuttosto inaffidabile: lei sa di star rubando il manoscritto di Athena, ma è questione di poche pagine e già lo presenta come suo aɜ lettorɜ, oltre che a sé stessa; a quanto pare riesce a fare una buona opera di convinzione, perché viene spontaneo dire “non è suo, è vero, ma l’ha riscritto e completato lei da sola”, quando appunto non sappiamo veramente quanto lavoro abbia fatto e se davvero il manoscritto fosse incompleto, una prima bozza molto distante dall’essere definitiva. Il racconto in prima persona aiuta molto in fatto di immedesimazione e il personaggio di June ne esce ottimamente caratterizzato: più passaggi sono mostrati in maniera molto realistica e d’impatto, contribuendo oltre che al “tenere” per lei, anche ad una maggiore comprensione delle sue azioni. L’unico altro personaggio degno di nota per come viene presentato, è Athena: la sua caratterizzazione, il suo rapporto con Juniper, sono centrali alla storia e gestiti al meglio. Il resto dei personaggi hanno un ruolo fisso, poco descritti e approfonditi, restano sullo sfondo e fanno quello che devono.
Yellowface è una lettura coinvolgente, da non riuscire a staccarsi dalle pagine, con una pesante ma molto ironica critica verso l’attuale mondo editoriale americano. Ma non solo, è anche un romanzo sulla passione e l’amore per la scrittura, sul perché gli scrittori la scelgano come lavoro, sui retroscena dello scrivere un libro oggi, tra blocchi dello scrittore, agenti insistenti e social che non perdonano. Tutto questo è raccontato in prima persona da una protagonista di dubbia moralità e affidabilità, June Hayward che nonostante non susciti simpatia per come si comporta o per come pensa, riesce comunque a tirare ǝl lettorǝ dalla sua parte grazie alla caratterizzazione realistica e vivida che ne fa l’autrice.
Voto: 9/10
Yellowface
di R. F. Kuang
Editore: Oscar Mondadori – Collana: Fabula
Pagine: 384
June Hayward e Athena Liu, giovani scrittrici, sembrano destinate a carriere parallele: si sono laureate insieme, hanno esordito insieme. Solo che Athena è subito diventata una star mentre di June non si è accorto nessuno.
Quando assiste alla morte di Athena in uno strano incidente, June ruba il romanzo che l’amica aveva appena finito di scrivere ma di cui ancora nessuno sa nulla, e decide di pubblicarlo come fosse suo, rielaborato quel tanto che basta. La storia, incentrata sul misconosciuto contributo dei cinesi allo sforzo bellico inglese durante la Prima guerra mondiale, merita comunque di essere raccontata. L’importante è che nessuno scopra la verità.
Quando però qualcosa comincia a trapelare, June deve decidere fino a che punto è disposta a spingersi pur di mantenere il proprio segreto.